Magazzino Cubo 2

TUTTE LE FACCE DI CUBO


Noi lo abbiamo iniziato così: mettendoci in cammino alla scoperta di tutte le facce che abitano il CUBO, delle esperienze, espressioni e sonorità dei molti volti che incrociamo lungo il percorso.
Calzature adeguate, zaino in spalla e cartina alla mano avanziamo quindi, passo dopo passo, perdendoci lungo i sentieri della creatività, attraversando distese immense di arte e musica, abbracciando design, letteratura e teatro. Viaggiamo e di questo viaggiare ne abbiamo fatto una professione. Le pagine che seguono, gli spazi interni di CUBO, ma anche quelli esterni di PARCO CUBO, le mostre, gli eventi e le attività che costruiamo e accogliamo, lo testimoniamo. Siamo esploratori che puntano il cannocchiale verso il futuro, verso quel 2020 che vede la nostra città protagonista indiscussa a livello nazionale della cultura. Siamo qui per questo: valorizzare quello che c’è e andare oltre insieme a Parma e ai suoi artisti, aprendoci all’esterno senza barriere, limiti di tempo e spazio. Il nostro incedere non conosce il punto a capo, ha il suono della ricerca, il senso estetico della scoperta e la virtù dell’infinto; ha la visione di un Polo Creativo e Formativo, quello di CUBO che è e sarà sempre di più punto di incontro e di svolta, diletto e professione.
Il Magazziniere


ARTI E MESTIERI: “Skywalk Viaggi“

“Dopo 24 traslochi in Italia, isole comprese, e oltreconfine non potevo che fare l’agente di viaggi. Così, ho deciso di mollare il posto fisso come commerciale estero per fare ciò che amo.
Nel mio lavoro cerco di personalizzare ogni itinerario in base a chi ho davanti, perché ognuno di noi ha delle aspettative ed uno stile di viaggio unici. Non sopporto le cose “confezionate” che vanno prese così come sono, senza possibilità di modifiche, che “va fatto così perché è così”. Poi c’è la scrittura, mia grande passione: collaboro infatti da anni con il Blog My Boarding Pass, gestito e scritto interamente da agenti di viaggio. Da questo punto di vista, anche la scelta di avere un mio spazio all’interno del CUBO non è stata casuale: avevo bisogno di un posto dove poter scrivere e qui ho trovato la mia dimensione. Dopo aver conosciuto ed iniziato a collaborare con i ragazzi del Brain, ho capito che quella scrivania in mezzo al luminoso open space sarebbe stato, per un paio di giorni la settimana, il mio nuovo piccolo mondo”.
Definisci la parola “viaggio”
“È una esperienza non per forza intima o da vivere in coppia, ma può essere condivisa con persone legate da un interesse comune. Così è nato il viaggio fotografico in Marocco, con il prezioso supporto di Cristian Ferrari, fotografo e nuovo collega del Brain. 24 viaggiatori, un campo tendato tutto per noi nel deserto, km di strada e il Grande Atlante – la catena montuosa più alta del Marocco. La traversata del deserto sul cammello non è stata apprezzata molto dai maschietti del gruppo, diciamo che quasi due ore di viaggio forse sono impegnative, ma per il resto rifarei subito la medesima esperienza”.
Perché hai scelto di costruire itinerari di viaggio?
“Sono curiosa ed amo scoprire luoghi insoliti. Partendo dalla mia personale esperienza, ogni viaggio deve avere una parte itinerante, di scoperta, per poi finire (dove possibile) con qualche giorno di relax. In Messico ho girato Yucatan e Quintano Roo con gli autobus di linea per poi approdare nella tranquilla e poco conosciuta isola di Holbox”.
Per il 2018 che itinerari di viaggio non convenzionali ti sono stati richiesti o hai proposto?
“Alaska e Hawaii, il viaggio dei miei sogni, dove andranno Alice e Mattia ad agosto: il ghiacciaio del Kenai Fiord, i vulcani attivi di Big Island e per finire la Road To Hana di Maui e le sue spiagge. Poi c’è il Nepal, un viaggio di gruppo che faremo ad ottobre per visitare il “Paese degli Dei”, chiamato così per l’alto numero di templi buddhisti e induisti. Un luogo magico che porta il viaggiatore in un’altra dimensione, decisamente in contraddizione rispetto ai canoni di vita occidentali”.
Consigli di viaggio… lasciarsi consigliare!
“Mai dire no a priori! Se vi consigliassi Las Vegas? È conosciuta come “città del peccato”, dove tutto è finto e assurdo. È questo, certo, ma anche molto altro! Ad esempio, è il punto di partenza di un volo privato che in un’ora ti permette di raggiugere la cittadina di Page, in Arizona. Da qui la guida conduce le visite allo splendido Horseshoe Band ed all’Antelope Canyon, due luoghi selvaggi e di straordinaria bellezza, dove l’unico artista è madre natura. Un esempio che mi piace proporre: un connubio di opposti che alla fine risulta armonioso”.
TESTO: ANTONELLA ZAMBONI | FOTO: CRISTIAN FERRARI


STORIE: “Carlo Gazzi“
“IL MIO VIAGGIO ? È SENZA PUNTO A CAPO”
Tre paia di scarpe, 16mila km lungo le Americhe e un numero infinito di esperienze ed emozioni.
Così è nata la sua casa a impatto zero. La storia di Carlo Gazzi.
Scorgere dai vetri della propria finestra non strade, auto e cemento ma vallate, alberi e cielo. Affondare i piedi nella terra, respirarne l’odore pungente. Accarezzare la superficie ruvida del legno, percepirne sotto le dita tutte le sue proprietà, i nodi e le crepe, mentre le narici si impregnano del profumo intenso della paglia appena seccata. Chiudere gli occhi, immergersi nel suono della natura.
Sentire, toccare, ascoltare: un viaggio tra i sensi, un viaggio dentro e oltre se stessi.
Carlo Gazzi, parmigiano, 39enne, professione grafico, è arrivato fin qui, ai piedi della vallata di Cafragna, alle porte della città, dove sta costruendo la sua casa a impatto zero in terra-paglia. Prima lontano e poi nuovamente vicino, si è spinto fino alla Terra del Fuoco per poi tornare alle radici, ai luoghi in cui è nato che, ammette, “un po’ si odiano e un po’ si amano”.
Ma partiamo dal principio. Era il 2009 e la storia di Carlo, se vogliamo, comincia proprio qui, da un trauma che è diventato opportunità. “Una mattina, di nove anni fa, ho avuto un grave incidente in moto che, tra operazione e riabilitazione, mi ha costretto a letto per parecchi mesi. Mentre ero lì sdraiato, a fissare il soffitto, senza essere travolto dal lavoro e dalla frenesia del quotidiano, con i pensieri che galoppavano, è scattato il desiderio, netto, lucido e consapevole, di cominciare a realizzare i miei sogni. La vita si era completamente ribaltata; così, ho deciso di intraprendere il viaggio che avevo in mente da sempre: partire dall’Alaska e raggiungere lo Stretto di Magellano. Un percorso di riabilitazione e un investimento, il migliore che potessi fare, realizzato con una parte dei soldi ottenuti dall’assicurazione a seguito dell’incidente”.
Si chiama Panamericana, ma si legge rinascita, interiore e fisica. Zaino in spalla, con soli 16 kg di peso, il primo paio di scarponcini, una compagna di viaggio con cui si era fidanzato solo pochi mesi prima dell’infortunio, e una voglia pazzesca di andare alla scoperta di terre ignote, di riempirsi gli occhi di nuovi scenari e di inzuppare l’anima in un mondo di emozioni diverse.
Carlo ha iniziato così: è arrivato in Alaska e ha comprato un vecchio camper. Un truck del 1992: tappezzerie vecchie, spazi ristretti, scricchiolamenti, ma, a suo modo, perfetto, funzionale, e su cui, poi, ha montato anche un porta biciclette.
Lui e lei, da soli, hanno attraversato tutto il Nord America, vedendo sfilare sotto i loro occhi distese di terra deserta e città immense, paesaggi marittimi e nature incontaminate; incrociando gli sguardi di altri viaggiatori assorti nei propri sogni, abitanti dai volti segnati dal tempo con cui condividere silenzi, esperienze e storie. E poi, giù, fino alla punta estrema dell’America. Il camper, a quel punto, è stato rimpiazzato da mezzi pubblici e privati, pullman, barche, barchette e auto a noleggio. “Il momento più bello sono gli spostamenti, quando hai tempo di osservare quello che ti circonda – racconta-. Abbiamo percorso tutto il Centro e Sud America: Messico, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Costa Rica, Panama, Colombia, Galapagos e Brasile. Siamo saliti fino alle Cascate di Iguazu, e poi Argentina, Cile e Terra del Fuoco”. A scandire il tempo e lo spazio c’erano sensazioni differenti. Meraviglia, trepidazione, stupore erano compagni di viaggio perfetti, quelli che non ti abbandonano mai, kilometro dopo kilometro. C’erano quando hanno vissuto in una palafitta sul mare su un’Isola dell’Honduras, o mentre viaggiavano su un’imbarcazione stravagante chiamata Lancia della Muerte; quando hanno esplorato luoghi dove abitano ancora popolazioni indigene, mentre dormivano nel bel mezzo della foresta Amazzonica sotto un cielo traboccante di stelle; e sono salite anche su quel treno che li ha condotti lungo tutta la Patagonia. Ci sono anche oggi, sono le fondamenta della casa che Carlo ha costruito in piena campagna: ogni pezzo è intriso della memoria di questo viaggio. “Ho sempre voluto fabbricare la mia abitazione, da quando, subito dopo la maturità, ho deciso di uscire dalla casa dei miei genitori: volevo avere un luogo per me, con un laboratorio e uno studio, uno spazio creativo”. La voglia di andare a vivere in campagna è arrivata con il tempo. “Dopo esperienze di vita nel centro di Madrid, Parma e Milano – spiega Carlo -, cominciava a crescere dentro di me l’idea di uno stile di vita diverso, a contatto con la natura, dove non si perde tempo prezioso in spostamenti. Anche perché, dopo l‘incidente, muovermi in città era piuttosto difficoltoso”. A dare la spinta definitiva ci ha pensato, appunto, la Panamericana. “Per mesi ho visto, gustato e toccato la bellezza dell’integrazione tra uomo natura, osservando la vita di molte persone che abitano in case isolate, all’interno di paesini sperduti, fatti spesso solo di legno”.
Così, grazie al suo lavoro da freelance e gli altri soldi dell’assicurazione, ha iniziato a realizzare il suo secondo sogno: costruirsi una casa tutta sua. “Dopo un viaggio così lungo, e svariati giri nel Sud- Est Asiatico, mi sono reso conto che il posto dove avrei voluto vivere erano le colline di Parma, vicino alla mia famiglia”.
La ricerca del come farla non è irrilevante. Carlo ha cominciato ad analizzare le varie modalità costruttive e, dopo tanti anni di difficoltà burocratiche e tentativi sfumati, ha incontrato l’Architetto Maddalena Ferraresi che ha reso reali i suoi desideri.
“La casa è in Bioedilizia, edificata in modo sostenibile, per impattare il meno possibile sull’ambiente. Pochissimo cemento, zero colle, zero solventi e pitture chimiche, pochissimo metallo per evitare campi elettromagnetici. La tecnica costruttiva è quella della terra paglia che da vent’anni si adopera con successo in molte zone della Francia; la struttura è in legno italiano. Il tutto garantisce un comfort climatico elevato che con nessun tipo di costruzione chimico industriale si riesce ad ottenere”.
E se gli parli di futuro, lui risponde senza esitazione: “Continuerò a viaggiare, sempre: per me è tutto. Appena mi metto in questa modalità, che sia per andare in Abruzzo o dall’altra parte del mondo, un weekend o un anno nelle Americhe, la sensazione è sempre la stessa. Una grande eccitazione per la preparazione: è una specie di obiettivo che mi prefiggo durante l’anno per lavorare meglio e sopportare i momenti più duri. Appena varco l’uscio di casa mi alleggerisco di tutto, non penso più alle incombenze, e, anche se so che le ritroverò al mio ritorno, sono conscio che avrò le forze per affrontarle tutte. Ogni volta che mi carico lo zaino sulle spalle, mi ripeto quanto è bello partire, vedere cose nuove e confrontarmi col mondo, e maledico quei momenti in cui magari ho pensato di non farlo”.
TESTO: GIULIA MARIA LETIZIA ROMANINI



ARCHIVIO: “Ilaria Gasparroni“
DI CARNE E DI MARMO IL DESIDERIO di Ilaria Gasparroni
Presso la CUBO Gallery dal 24.02 al 26.04 – a cura di Elena Saccardi
Dietro le sculture di Ilaria Gasparroni, artista dall’anima gentile, ci sono viaggi culturali e miraggi poetici. Trae la sua ispirazione a partire dai testi letterari e, prima della realizzazione di un’opera, sempre dallo studio degli autori e aspetta con pazienza che ogni scultura prenda vita.
Dall’attesa di sé all’attesa dell’altro: le opere di Ilaria Gasparroni raccontano quel flusso continuo di desiderio e di tensione che muove ciascuno verso la scoperta del senso della propria vita e verso l’incontro con gli altri individui. Un viaggio a volte faticoso, da compiere in punta di piedi, così come ci racconta “Sulle spine” (marmo di Carrara, spine rosa e legno), una scultura che raffigura le scarpette di una ballerina con la suola attraversata da spine.
Quest’opera allude a tutto il percorso di fatica e di speranza che ogni individuo compie quando si mette in gioco e si sacrifica per ottenere qualcosa di bello, grazie alla perseveranza e alla passione.
Poi, con una delicatezza quasi antica, l’artista ci narra il momento in cui la consapevolezza di sé si afferma serena: “Dolcezza” è il ritratto di una donna forte e decisa – e proprio per questo capace di tenerezza. Ispirata ai versi danteschi “Mostrasi sì piacente a chi la mira | che dà per gli occhi una dolcezza al core,|che ’ntender no la può chi no la prova”, questa Madonna contemporanea esprime una dolcezza tutt’altro che remissiva: è una presenza assertiva, carica di umanità e futuro. Anche in questo caso c’è attesa, c’è desiderio e c’è l’invito a riscoprire il mistero e la delicatezza.
Di carne e di marmo al contempo, la scultura “Il bacio” si ispira all’opera di Rodin e si staglia con ieratica perfezione a immortalare l’attimo che precede il contatto più intimo fra due anime. Gasparroni ha voluto dare corpo alle parole di Cesare Pavese, quando nelle Poesie del disamore scriveva “la donna volge il viso accostandogli la bocca alla bocca… la bocca dell’uomo s’accosta. Ma l’immobile sguardo non muta nell’ombra”. Ci parla di desiderio e contatto tra anime anche “Possesso e protezione” che, come tutte le opere di Ilaria, nasce da un immaginario preciso: le sue sculture sono sempre il calco di persone scelte in modo univoco. In questo caso, una coppia, la mano di lui posata sulla caviglia di lei. Gasparroni ci parla con dolcezza di incontri caldi, umani, calati nel presente ma sublimati dalla grazia. Per descrivere questo dialogo muto, rubato a un gesto subitaneo, fatto di marmo ma che pare vivo, riecheggia Montale: “Tu sola sapevi che il moto | non è diverso dalla stasi, | che il vuoto è il pieno e il sereno | è la più diffusa delle nubi. Più complessa la storia della composizione “[dí(s) ‘doppio’ – morphé ‘forma’]”. Un’opera che allude al Giano bifronte e che “esprime il contrasto tra vita e forma, ossia tra realtà e possibilità, tra fissità e fluidità, tra ciò che siamo e ciò che facciamo vedere di essere”. Qual è la forma reale? Quale immagine vedono gli altri di noi? Quale quella che vorremmo? Infine, si sublima nei contrasti “Vanitas”, reinterpretazione contemporanea delle composizioni sulla caducità della bellezza e della vita: dei fiori secchi fragili, una clessidra vitrea e glaciale e una mascella pesante e marmorea, sineddoche scultorea per il più classico teschio. Ci dice “memento mori”, come lugubre presagio di un tempo che non sarà più, oppure, piuttosto, ci esorta a un più consapevole “memento vivere!?” Vivete, viviamo, gustiamo la dolcezza dell’attesa, del desiderio e del presente, del nostro esserci di carne, di marmo, di spine. E non perché il tempo fugge e dobbiamo graffiare il giorno ma perché, sopra ogni cosa, l’amore e il desiderio, il viaggio verso l’altro e l’incontro dilatano il tempo all’infinito e danno senso a tutte le memorie, a tutte le presenze, a tutte le distanze.
TESTO: GIULIA MARIA LETIZIA ROMANINI


ARCHIVIO: “Franco Poli“
Franco Poli, in mostra a maggio alla Galleria Bianca del Cubo, inizia la sua carriera di Designer negli anni settanta per i noti marchi Bernini spa e Poltrona Frau. Negli suoi lunghi viaggi intorno al mondo rimodula continuamente i linguaggi della contemporaneità nella ricerca di una nuova visione umanistica del vivere. Fra i suoi lavori, oltre all’ampia collezione di arredi per numerose aziende, anche una fortunata sequenza in cuoio per Matteo Grassi che gli ha valso riconoscimenti in tutto il mondo. Professore di Design all’ Accademia di Belle Arti di Venezia, tutor per il C.N.R, visiting professor per il Politecnico di Milano e per l’ U.I.A. di Firenze, le sue opere sono presenti nella collezione permanente del The Denver Art Museum, nei Fonds National d’Art Contemporaine di Parigi, nel museo della Triennale di Milano, nel Magma Design Museum di Napoli e nella collezione permanente della Farnesina Design presentata di recente all’ Ara Pacis Museum di Roma.
Ci parli della sua esperienza artistica e in particolare del suo processo creativo: come si innesca e dove affonda le sue radici? Che rapporto sussiste fra intuizione e ricerca tecnico/ scientifica? Quale precede o presuppone l’altra?
“La creazione nasce al confine fra il visibile e l’invisibile: io sono affascinato da questo momento, dove trasformo l’invisibile in qualcosa di visibile e tangibile, e di codificato. E proprio questo è il passaggio successivo: una volta superata la soglia dell’invisibile occorre riconoscere una forma; la forma è la qualità logica che costituisce il linguaggio umano e riprodurre molte volte una forma per ottenerne un vantaggio funzionale è alla base del Design. La forma e il suo linguaggio, la funzione e il suo progresso sono inscindibili nella disciplina del Design non può esistere una senza l’altra. L’elaborazione formale nel Design ha dei principi, delle regole lessicali e grammaticali esattamente come il linguaggio parlato e scritto, ma è più dinamico. Nel Design il linguaggio si trasforma più velocemente, si rifonda progressivamente, aggiunge e toglie di continuo gli elementi del suo paradigma ed è universale, mentre il linguaggio verbale è molto strutturato. Detto questo, la scienza e la tecnica sono funzionali al processo produttivo e l’evoluzione positiva sta nelle mani e nelle coscienze di chi elabora i dati e i materiali per produrre oggetti”.
In particolare, ci illustri dal suo punto di vista il concetto di creazione/creatività quale risultato della cultura, legata al momento storico e del carattere proprio dell’artista… E cosa significa oggi per un Designer nutrirsi e trarre ispirazione della cultura sfaccettata, cangiante, multiforme e multicodificata di oggi?
“Il Design nasce dall’industria nascente, non dimentichiamoci che è arte minore in un mondo ottocentesco teso al progresso tecnico-scientifico, è lì che si pongono le basi del Design contemporaneo più di quanto noi oggi siamo disposti ad accettare. Il vero cambiamento di rotta è avvenuto con il 1968: il Design era borghese e antiborghese, creativo, populista, anticlassista e rivoluzionario sia nei salotti europei come sugli altipiani della Bolivia, vero e falso, buono e satanico contemporaneamente ma sicuramente molto stimolante. Per capire dove siamo oggi dobbiamo osservare bene la contemporaneità! Perché non è facile da mettere a fuoco… Socrate inventa la dialettica e ai suoi tempi bastavano due piani, oggi non ne bastano quattro, otto… dodici forse, una visione dodecalettica probabilmente è ancora insufficiente per ridefinire il mondo oggi”.
Come riesce, come Designer, a non cadere nello style pur mantenendo una cifra stilistica che renda riconoscibile la sua firma? Cosa accumuna le sue opere?
“Spero che non ci sia cifra stilistica nel mio lavoro, e se c’è è assolutamente involontaria. Sono convinto che creare una cosa davvero nuova produca anche il linguaggio formale che la definisce. Quando si immagina un oggetto nuovo, quando si produce quello stato di grazia che è simile all’innamoramento, tutti gli orizzonti cambiano come nell’amore vero… esce una cosa… e prima non c’era”.
Ci parli del suo pregevole lavoro sul cuoio: lei ha plasmato questo materiale, trasformandone la resistenza meccanica e rendendolo elastico e malleabile moltiplicandone la superfice creando delle reti espandibili: ci illustri il percorso ideativo, di ricerca e di produzione di queste sue creazioni così innovative.
“Alla base di questa innovazione c’è l’idea di “reti topologiche”, concetto che non è semplice spiegare né capire. Possiamo dire, nella teoria, che dato un piano bidimensionale flessibile ma non elastico (come il cuoio o la carta) se facciamo dei tagli secondo una geometria discreta o topologica rendiamo possibili deformazioni che producono forme tridimensionali non ottenibili con gli strumenti tradizionali o Euclidei. Non sono uno scienziato e ancor meno un matematico ma ho anche un geniale fisico teorico amico mio con il quale ogni tanto facciamo a gara su temi complessi e finché non c’è da mettere giù una formula scritta ci divertiamo. Le reti io le “vedo”, poi le disegno a computer e le faccio con le mani; immaginazione e prove senza fine partendo dalle ricerche di Bucky Fuller sulla geodesia, i solidi platonici e le Tensegrity, un mondo tutto da esplorare. Poi alla fine ogni cosa deve calarsi nella realtà e il mondo vero ti chiede oggetti veri e “vendibili” per un mercato sempre più difficile dove chi guida oggi vuole solo risultati. Alla fine degli anni novanta Matteo Grassi, leader della storica azienda fondata negli anni ottanta specializzata in arredamento in pelle e cuoio, mi ha permesso di sviluppare fino in fondo una ricerca che non aveva certezza di risultato ma si è rivelata un investimento fantastico”.
Il tema di Parma 360 di quest’anno è “Arte e Natura”: come pensa che venga declinato nella sua produzione artistica di manufatti e oggetti di Design?
“L’Arte è creazione di segni, forme e figure che hanno senso per noi, la Natura è visibile da noi solo nei segni, forme e figure che sono percepibili dalla nostra mente ma che la Natura produce per ragioni che ci sono ignote. I nostri progenitori, avendo solo materiali di origine naturale o biologica, potevano restare in equilibrio con l’ambiente originario. Oggi anche se è impossibile tornare alle origini, sentiamo l’obbligo di trovare un “accordo” con gli elementi naturali. L’Arte, declinata nel mio caso nel Design, legato indissolubilmente al il mondo della produzione, ha una missione drammaticamente concreta, dobbiamo ridisegnare il legame con la natura e gli oggetti che ci sembrano indispensabili. Per questo ho utilizzato principalmente materiali di origine biologica o naturale come il cuoio e il legno. Oggi ritengo, come ieri, che il legno sia un materiale ottimale sia perché è una salubre risorsa di materia prima, sia perché si lavora in modo “umano”, e alla fine si disperde senza danni nell’ambiente”.
Ci parli di cosa troveremo della mostra in allestimento a maggio alla Galleria Bianca del Cubo.
“L’idea sposata dall’amico architetto Guillaume Pacetti che firma l’allestimento è quella di collocare un mondo di forme molto definite su un basamento informe e caotico di materia bruta. La maggior parte degli oggetti in mostra sono una sequenza di oggetti rari o unici che è quasi impossibile vedere se non in questa mostra, alcuni sono prototipi di parecchi decenni fa, altri sono esperienze dinamiche di concetti che successivamente si applicano al progetto (quello che io chiamo “pretipi”) principalmente sono prove di reti in cuoio, e per finire vi sono alcuni oggetti contemporanei che rappresentano l’applicazione fisica di concetti “pretipi”.

MAESTRANZE “Nicolò Talignani“
IL “CONTAMINATORE” CON LA VALIGIA
Un viaggio che attraversa economia, export, moda e musica, continenti e città diverse. Quella di Nicolò Talignani è la storia di un esploratore, o meglio di un “contaminatore” alla ricerca di nuovi mondi e forme espressive. Professione manager ma anche creativo, esperto di mercati internazionali e imprenditore di moda. In lui si fondono più anime e culture, oltre ad uno spiccato fiuto per il business. Nato a Parma, vive e viaggia lungo l’intercapedine, tra interconnessione culturale e multidisciplinarità professionale. Cresce girando luoghi diversi grazie alle sue due attività: Senior manager per le aziende italiane che vogliono entrare nel mercato statunitense; Co-fondatore e socio di Waxman Brothers, marchio made in Italy che raccoglie e integra musica, culture e tradizioni differenti.
Come e quando hai cominciato la tua attività di Manager e come si integra con la tua attività a Waxman Brothers?
“Dopo la laurea in Marketing e Management nel 2013 a Milano, sono entrato in contatto con il mondo dell’export e ho cominciato la mia attività di Manager per conto di una società che ha sede a New York e un ufficio di rappresentanza a Rimini, dove tutt’ora lavoro. Il mio ruolo è supportare le aziende italiane che vogliono entrare nel mercato statunitense. In questo settore ho maturato competenze e abilità a livello di business e di marketing che mi sono servite anche quando ho fondato insieme a Valerio Waxman Brothers”.
Perché hai deciso di fondare Waxman Brothers?
“L’idea è nata a Parigi nel 2014, mentre seguivo uno stage in un’azienda di moda. In quegli anni io e il mio socio, Valerio – oggi siamo in cinque soci, tutti estremamente preziosi – vivevamo nel 18th arrondissement. Un quartiere dove si respira moltissimo la cultura africana e dove si mescolano senza interruzione tradizioni differenti. Ne siamo rimasti completamente affascinati. Waxman Brothers ha visto la luce tra queste vie e si è ispirato ai colori e dalle atmosfere di questo luogo. Alla base del progetto c’è il modus operandi della sperimentazione: un giro nel mondo guidato da arte e creatività. Così come nella musica, la contaminazione tra Africa e Occidente ha dato vita ad alcuni degli stili che oggi più ci appassionano,
anche nell’abbigliamento abbiamo ricercato lo stesso risultato. Non è un caso se a livello di immagine abbiamo cercato di affermare i nostri valori attraverso lo sviluppo del Wax Connection: un collettivo di artisti, musicisti, dj e produttori che accompagnano e rappresentano la filosofia della nostra marca”.
In testa e in coda al progetto c’è appunto lui: il tessuto wax. Ma qual è la vostra filosofia?
“Una contaminazione perfetta tra un elemento rappresentativo dell’Africa, i tessuti wax, e uno dell’Occidente, la manifattura italiana. Fondendoli, abbiamo dato vita ad un nuovo stile, the World Apparel. E il wax si presta benissimo: è un cotone stampato, un’esplosione di colori inusuale che ricorda le stoffe in cui le donne, gli uomini, i bambini avviluppano i loro corpi mentre passeggiano tra le caotiche viuzze dei mercati affollati e variopinti delle città africane. Una molteplicità di tinte e forme, che non ha un verso, un dritto o un rovescio, ma si plasma come “cera” sotto le abili mani del sarto. Da questo punto di vista è una “materia” perfetta per creare qualcosa che non esiste. Waxman Brothers è stata una delle prime marche a proporre il wax con un approccio highend streetwear. Tutti i prodotti sono fabbricati in Italia, e questo perché contrariamente all’approccio del mondo “fast fashion”, teniamo moltissimo alla qualità”.
La scelta di stabilire l’ufficio a CUBO, da cosa è dipesa?
“Il CUBO è arrivato qualche anno dopo, nel 2016, grazie a Nicola, diventato presto socio di Waxman Brothers. È stato lui a darci l’opportunità di prendere uno spazio all’interno di un contesto dinamico ed elettrico come questo. Io e Nicola abbiamo creato qui il nostro punto di riferimento. Lo abbiamo scelto perché rappresenta Parma, la mia città, quella dove sono nato e tutt’ora vivo, un punto di incontro di mestieri e saperi diversi. Un crocevia artistico e creativo unico nel suo genere e in totale sintonia con la nostra start up. Dopo Parigi, se vogliamo, il CUBO è stata la seconda tappa del viaggio di Waxman Brothers: da questo edificio sono iniziate le nostre attività. Prima rivolgendoci ad una serie di negozi selezionati all’interno del territorio nazionale, poi puntando sull’e-commerce. Nell’ultimo periodo abbiamo intercettato il mercato giapponese, dove il tessuto wax è molto apprezzato, e infine, il 15 marzo, abbiamo aperto il nostro monomarca a Milano all’interno di Santeria Social Club, un locale dove si uniscono arte, musica, svago e creatività. E qui abbiamo lanciato anche la nostra nuova contaminazione: le linee ed il neoprene di Pijama si uniscono ai tessuti africani di Waxman Brothers. Realizzeremo una Capsule Collection, composta da una selezione dei loro prodotti iconici, accomunati dallo stesso tessuto: un vero e proprio wax life style”.
TESTO: GIORGIA CHICARELLA | FOTO: CRISTIAN FERRARI

ARTI E MESTIERI: “Teatro Necessario“
Era l’11 marzo 2018, correvo sotto una pioggia scrosciante, avviluppata in un cappotto color cachi senza cappuccio. In testa solo un vecchio cappello infeltrito che fungeva o, teneramente impacciato, aspirava a fare le veci di un vero ombrello, uno di quelli seri, neri, moderni. L’obiettivo era raggiungere i portici dell’Ospedale Vecchio evitando di rovinare a terra, fragile, instabile su quei tacchi sottili di velluto rosso che avevano ormai l’aspetto di scarpe dimenticate nei bauli della nonna. Ma ad un tratto l’occhio mi cade su un manifesto inzuppato dalla pioggia, stancamente appeso ad una porta un po’ decadente dal colore celestino chiaro e grigio topo. Mi blocco, incurante dell’acqua che mi impregna gli abiti e mi scorre sulla pelle arrivando fino alle gambe. Sopra c’è disegnato un signore magro e lungo, ci sono dei numeri che leggo a fatica e una lunga spiegazione che campeggia sotto un grande titolo color porpora: “Viaggio con il Circo Contemporaneo”. “Si parte dalla Francia, si attraversa tutta l’Europa, si approda in America, e fino al Giappone. Il viaggio, anzi i viaggi promettono bene, gli ingredienti giusti ci sono tutti: c’è la musica, la comicità, l’acrobazia e il mimo. E i compagni, che sono anche i “conducenti”, sono davvero esilaranti: tre tipini sui generis, clown eccentrici, geniali, irriverenti. Corpi elastici come molle, agili ed eleganti come felini, teste bizzarre, occhi svegli che vanno sempre e comunque oltre l’ovvio. Non parlano tanto, fanno molto. Nella valigia solo abiti di scena che mescolano stili differenti, circense, bohemien, vintage, e strumenti del mestiere davvero singolari: scarpe bislacche, nasi importanti, cappelli stravaganti e strumenti musicali inusuali”. Mi asciugo gli occhiali appannati e ormai “foderati” d’acqua e proseguo nella lettura delle ultime righe: “Mi raccomando, non dimenticate che mentre si viaggia, si canta, si balla, si ride e soprattutto si crea. Qui, facciamo poesia. Per gli interessati, presentarsi al CUBO, in via La Spezia, numero – ma la carta si è sgualcita proprio in quel punto – e chiedere del Teatro Necessario”.
Volo letteralmente sul posto, sempre su quei tacchi fragili e maldestri, cerco con affanno il numero civico e suono il campanello, affetta da quella smania di scoperta che assale tipicamente i viaggiatori veri. Salgo al quarto piano grazie ad un montacarichi. Entro nella stanza coperta dalla penombra: mi viene incontro un uomo alto, sembra quello del manifesto, mi fa accomodare su una vecchia sedia di legno, dopo avermi gentilmente preso il soprabito inzuppato. Mi guardo intorno e scopro con stupore che la sala è gremita di gente. Passano alcuni minuti, non vola una mosca, nemmeno una parola, si apre il sipario e il viaggio comincia.
Come promesso, si parte dalla Francia: sono i primi anni Duemila, i tre compagni, Leonardo Adorni, Jacopo Maria Bianchini e Alessandro Mori, gli artisti del Teatro Necessario, hanno mosso i primi passi nel mondo del teatro al tempo dell’università. Poi, si sono spinti oltre, alla scoperta di stili differenti. Incontrano il circo francese e ne cadono totalmente innamorati.Glielo leggi negli occhi mentre mimano la scena, saldi sulle loro gambe, presenti, magnifici, versatili, modulabili; hanno lo stesso aspetto descritto nel manifesto. Il genere è quello del circo contemporaneo, dove gli ingredienti fondamentali non sono le parole, bensì la fisicità, il movimento, una combinazione perfetta di teatro virtuale e di musica. Spiegano, sempre con gesti spassosi, che i francesi sono stati tra i primi ad investire in questo ambito, già trent’anni fa e lo hanno fatto non solo alla grande, ma anche velocemente. A fare da leva ci sono stati e ci sono i finanziamenti statali, questi sconosciuti, che in qualche Paese illuminato si destinano ancora a cultura e arte. Oggi, tutti i Festival e gli spettacoli di circo francese sono intrisi di questa arte che mescola linguaggi differenti. “In Francia il circo contemporaneo è protagonista” chiarisce Leonardo, la voce narrante, quando c’è. Da quel momento, la terra della Belle Époque diventa la loro seconda patria: i ragazzi del Teatro Necessario vanno e vengono diverse volte l’anno, prima come esploratori alla scoperta di un nuovo mondo per conoscere da vicino una disciplina ancora sconosciuta in Italia, capirne i segreti e le tecniche, e poi, grazie ad anni di studio e allenamenti, come ospiti internazionali. Li invitano ad esibirsi in quei Festival che in passato osservavano sbalorditi. Sono bravi, magici, fanno ridere di gusto. “Noi siamo clown – risbuca la voce narrante – siamo comici, se non lo aveste capito, e curviamo tutte tecniche del circo contemporaneo, musica, teatro, acrobatica, in modo funzionale al nostro racconto, al nostro fare spettacolo. Combiniamo le discipline più classiche e ricche di magia a quelle più tradizionali del palco, come il mimo e la danza”. Hanno un loro stile, nettamente personale che non segue percorsi già tracciati, ma si identifica come un unicum.
Prendono il volo dalla Francia, il loro punto di riferimento artistico e culturale, ma anno dopo anno, grazie a bravura e passa parola, li chiamano ovunque: entrano e conquistano i teatri, i festival, gli spettacoli di tutta Italia e di diversi paesi del mondo. Valigia alla mano, hanno percorso in lungo in largo tutta l’Europa e oltre, approdando in Canada, Brasile, Corea e Hong Kong. Hanno inoltre fatto una sosta formativa di alcuni mesi a Cuba, nel 2007, per frequentare la scuola di circo statale. “Un istituto simile alle nostre scuole superiori dove vengono insegnate oltre a tutte le materie classiche, anche musica, circo, acrobatica”, prosegue Leonardo. “Qui abbiamo vissuto come veri cubani, scoprendo la loro cultura, assaporandone i gusti artistici e culinari, usando la loro moneta, frequentando i locali tradizionali e apprendendo tecniche circensi differenti, modulate sulla disciplina di stampo russo”. Tecnicamente – lo mostrano – i cubani sono artisti mostruosi, perfetti, hanno molta inventiva perché sono abituati ad arrangiarsi con quello che hanno, anche se la contaminazione con altre culture – stimolo fondamentale per la creatività – non è sempre possibile. Nella terra del Chè ci sono andati portandosi molti attrezzi del mestiere, clownerie che hanno donato agli studenti cubani. I ragazzi del Teatro Necessario viaggiano, non certo come turisti, si immergono testa e piedi nei luoghi e nelle culture che visitano, e le fanno proprie, osservandole con la lente di ingrandimento del teatro, come persone e clown professionisti.
Gli spettacoli che portano in giro per il mondo sono tre: Clown in Libertà, Nuova Barberia Carloni e Tête À Tête. Contano nel 2011 fino a 163 repliche per poi scendere a 90/100 spettacoli di media all’anno. “Abbiamo investito sul territorio, puntando sulla creazione e gestione di rassegne di Circo Contemporaneo, invitando artisti internazionali, ormai amici, conosciuti nei nostri viaggi”. Li citano e li mimano: Tutti Matti per Colorno, Tutti Matti sotto Zero, Tutti Matti in Emilia, le Tournée del Cirque Bidon in Emilia Romagna e il FV Summer Festival. “Dallo scorso anno – precisa Leonardo – abbiamo aperto una sede nostra qui, nello spazio di CUBO, dove si respira un clima di contaminazione artistica e culturale unica. A breve apriranno anche le porte di PARCO CUBO, un’avventura che ci affascina moltissimo e dove l’ideazione, la creatività e la formazione diventeranno protagonisti”.
Le parole, quelle poche che servono per spiegare meglio al pubblico i vari passaggi del viaggio, non sono mai sole: se ci sono, sono sempre accompagnate da gesti. È magia. La voce narrante e i movimenti si chetano, ma il viaggio prosegue, dal mondo al CUBO, dal CUBO al mondo con i ragazzi del Teatro Necessario.
TESTO: GIORGIA CHICARELLA | FOTO: ARCHIVIO TEATRO NECESSARIO


STORIE: “Patrizia Dall’Argine“
Ad esempio, partire. Questo suggerimento, dolce e deciso, è stata “la risposta singola a domande multiple” di Patrizia Dall’Argine, parmigiana in viaggio per il mondo da un anno intero ma, forse, da una vita. La incontro a Borgo delle Colonne 28, appena rientrata dalla Patagonia, di una bellezza e di una energia che fanno pensare a tutto tranne al jet lag. Nel suo blog, www.adesempiopartire.com, ci sono molti racconti delle sue esperienze di viaggio, ma ho provato a sfruttare la sua generosità e farmi dire qualcosa di più.
Questa intervista è dedicata a tutti coloro che, prima di viaggiare con i piedi, viaggiano con la mente.
Come e quando è nata l’idea di essere, prima di tutto, una viaggiatrice?
Dico spesso che noi scegliamo il viaggio, ma anche che il viaggio sceglie noi. Inoltre, se la domanda è quella giusta, la risposta non tarda ad arrivare. Mi sono chiesta sinceramente cosa volessi fare; e volevo fare questo. Un salto nel vuoto, dentro al pieno del mondo. Ora ho accumulato tanto vissuto e credo che da certe esperienze non si possa poi tornare indietro. Più conosci, più hai voglia di conoscere. Credo si possa dire lo stesso dell’amore. E in effetti mentre viaggio, io mi sento innamorata. Ogni volta che apprendo qualcosa di nuovo, che ho un incontro straordinario, che la natura mi lascia senza fiato, sento letteralmente le farfalle nello stomaco.
Come organizzi i tuoi viaggi?
Normalmente non li organizzo. Una volta che la meta è scelta, prenoto l’ostello per i primi 3 giorni. Da lì in avanti mi lascio guidare dal viaggio. Ovviamente prima di partire faccio ricerche, ma non porto con me nessuna guida. Preferisco parlare con le persone del posto che, normalmente, consigliano mete al di fuori dei classici circuiti turistici. Mi piace molto frequentare anche i vari uffici del turismo che, spesso, sono presenti anche in paesi piccolissimi. Lì mi fermo, parlo, ascolto, faccio un sacco di domande. Prenoto un giorno per l’altro, cerco di non avere vincoli e di stare il più possibile nel tempo presente. Ho imparato che quando incontri un posto che ti fa sentire come a casa è saggio fermarsi. Arriva sempre, comunque, il momento in cui avverti il desiderio di proseguire.
Quando si pensa al viaggiare in solitaria ci si immagina un’avventura stile Into the wild… Quanto tempo passi realmente sola e quante persone, invece, costellano le tue esperienze pellegrine?
Sulla via Francigena, l’estate scorsa, mi è capitato di camminare in totale solitudine per un mese. La solitudine è il fulcro, il cuore strutturale e semantico del viaggiare in solitaria, e con la solitudine il rapporto si definisce giorno per giorno. Sei tu, la paura, il coraggio, la debolezza, la forza, la frustrazione, la gioia, il desiderio. Tutto da gestire nel piccolo spazio che include il tuo corpo e il tuo zaino. Da quel perimetro muovi i tuoi passi. Vado a sud o a nord? Dico sì, o no? Continuo o mi fermo? Una scelta continua e la responsabilità è esclusivamente tua. D’altro canto la solitudine è un’enorme, sorprendente calamita che attira a sé splendide opportunità e avventure. È uno stato di grazia che permette di avere tutti i canali espressivi, creativi e ricettivi spalancati sul mondo, accogliendo tutto quello che accade e soprattutto le persone che, spesso, con insperata fortuna, incrociano il tuo andare. Non c’è viaggio in cui la mia solitudine non sia stata riempita di incredibili personaggi.
C’è una storia che ti porti nel cuore più di altre?
Ce ne sono molte, cito questa: l’incontro con Silvina, una indiana di 94 anni della Costarica. Una donnina minuscola, con le trecce e le unghie colorate di giallo e rosa. Un carisma eccezionale. Mi è stato raccontato che Silvina, da giovane, andava nei boschi e riusciva a mungere le vacche allo stato brado e a costringerle addirittura a sedersi, con un solo gesto della mano. Sono capitata a casa sua, mi ha preso per mano e mi ha parlato guardandomi fisso negli occhi. La mia impressione è stata che mi stesse aspettando. Mi ha riempito di benedizioni e ho sentito un conforto indescrivibile.
Quando è che, mentre sei all’estero, ti senti straniera? E quando invece ti sei sentita “a casa”?
Mi sento straniera se avverto che i locali mi considerano soltanto un bancomat con le gambe. È comprensibile. Si tratta di sopravvivenza, di povertà. Mi sono sentita a casa, invece, ogni volta che un perfetto sconosciuto mi ha offerto qualcosa da mangiare. Dare da mangiare è in assoluto la prima, inequivocabile forma d’amore; un gesto di incredibile intensità che accorcia le distanze.
Cosa pensi dell’Italia, dopo aver visitato il mondo?
Che amo l’Italia. Amo la sua cultura, il genio, l’arte, il cibo, la varietà, la natura del nostro Paese. Mi amareggia l’incuria, la disaffezione, la scarsa considerazione che riserviamo alla nostra terra. Il nostro Paese è di una bellezza sconcertante.
Quali sono le difficoltà più grandi che hai dovuto affrontare?
La malattia. Sono stata molto male in Messico e in Perù, i medici erano arrivati a dirmi che forse avevo la tubercolosi. È difficile descrivere l’angoscia di quei momenti. Essere derubata. Mi è successo diverse volte. Una, in particolare, nella frontiera tra Messico e Guatemala, è stata un’esperienza sconvolgente. Il machismo imperante in una buona fetta di mondo che ho attraversato. La gestione della solitudine che, in momenti di grande difficoltà, è particolarmente complessa – è molto facile sentirsi persi ed entrare in panico.
Eppure, a dispetto di tutto questo, per una persona che ti deruba, ce ne saranno 100 disposte ad aiutarti. Per questo, per tutti coloro che mi hanno aiutato, ho una ferrea fiducia verso il genere umano.
Quali lati del tuo carattere senti di aver cambiato con l’esperienza del viaggio?
Sono partita con un carattere, l’ho portato in giro per il mondo e poi l’ho ricondotto a casa.
Ho imparato – sto imparando – a dire no, a non concedere spazio e tempo a ciò che non mi interessa per davvero.
L’accettazione dei limiti e la capacità di esplorare tutto quello che si può fare, dentro il limite. Dover scegliere costantemente mi ha reso più abile anche in quest’arte che prima vivevo con molta frustrazione. La lunga malattia, in Perù, mi ha insegnato la pazienza. Ho smesso di considerarmi una persona fragile. Il viaggio insegna a lasciar andare, a scorrere insieme a ciò che accade. A comprendere che non si ha controllo su nulla. A rispettare profondamente il corpo, che è il depositario delle più antiche verità. E poi viaggiando, mi sono sentita grata di tutto. Della bellezza che è ovunque, in chiunque. D’altro canto, lo scotto da pagare è una sottile malinconia. Ho letto, una volta, che da un lungo viaggio non si torna, veramente, indietro.
Prima di essere una viaggiatrice, tu sei una chitarrista, una cantante, un’attrice e una scrittrice: quali di queste passioni porti in viaggio?
Scrivo dei miei viaggi. Non posso pensare di non farlo, perché la scrittura è un momento di rielaborazione, nel quale scopro e comprendo per davvero cosa sta succedendo e perché. La narrazione del viaggio, ha, per me, la stessa importanza del viaggio stesso.
C’è posto anche per la chitarra nello zaino?
Purtroppo no. Il corpo va protetto in viaggio e non avrei la forza di aggiungere uno strumento sulle mie spalle. Però il mondo è pieno di chitarre per fortuna, e anche gli ostelli.
Quali sogni ti spingono a ripartire?
Io sogno che i sogni non restino sogni. Per questo parto. A me piace prenderli, tirarli giù da quel mondo edulcorato dove sono perfetti, stirati e inamidati e sgualcirli, sporcarli, riempirli di tutto il reale che c’è là fuori. Voglio conoscere. Voglio incontrare le persone. E farmi sconvolgere dalla natura. E quindi devo partire, perché tutto questo da lontano, o da casa, non si può fare.
E quali a tornare?
Ciò che mi porta a tornare non ha nulla del sogno. È fatto di carne e ossa. E sono in tanti. La mia famiglia, i miei amici, che amo molto. E sono molto legata anche alla mia terra. Il viaggio presuppone una partenza e un ritorno. Sono due momenti che emotivamente mi mettono duramente alla prova. È difficile partire, è difficile tornare, perché si tratta di un taglio, una grande cesura, in entrambe i casi. Eppure nel principio è contenuta la fine e viceversa.
TESTO: GIULIA MARIA LETIZIA ROMANINI